INTERVISTA
C. Guarda Conversazione con Tino Repetto
Catalogo mostra, Galleria Matasci Tenero, settembre 1989
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L’appuntamento è fissato per il tardo pomeriggio, nel suo studio. Lo slargo su viale Montenero conserva ancor oggi il fascino discreto della vecchia Milano: una cerchia di caseggiati e palazzi che fa da corona ad una superstite oasi verde. La chiude, su di un lato, l’austera facciata di un signorile palazzo ottocentesco. E’ qui che abita Tino Repetto.
Dietro l’umiltà del portello, l’androne colonnato si eleva imponente: vi perdura l’eco di passati fasti, forse nobiliari; ma una volta superatolo, ecco farsi avanti una realtà più dimessa e domestica. Ora salgo lungo strette rampe di scale nella luce grigia delle finestre che si aprono sul cortile interno. Indugio, appena, sui pianerottoli contornati da leggere ringhiere lombarde: mute porte di vernice marrone scandiscono il silenzio di questa tarda giornata invernale.
Salgo, e già lo intravedo affacciato alla balconata del quarto piano. Mi viene incontro, come sempre gentile, affabile e riservato ad un tempo. Entriamo nello studio, ci accomodiamo, centelliniamo del buon bianco di Medicina in vecchi nappi di scompagnati colori.
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Che ricordi hai della tua infanzia, delle tue radici genovesi, del paesaggio ligure?
Il mare, l’incessante ritiro delle onde, la battigia, gli scogli, la luce marina, il vento, le piante liguri, il pitosforo, le palme, i pini, gli oleandri. Vissuti, perduti, pianti.
Tu pervieni alla pittura solo in un secondo momento dopo aver attraversato studi scientifici e aver conseguito la laurea in ingegneria. Eppure mondo dell’arte e mondo scientifico si direbbero due mondi contrapposti e inconciliabili.
La Scienza è una categoria essenziale, decisiva, conoscenza sperimentale razionale metodica, avanza sul reale, la frontiera avanza, le visuali cambiano, le filosofie seguono. Ingegneria è applicazione, ma applicazione della scienza spesso ad alto livello. L’Arte è più elitaria, è una categoria dello spirito, più completa in ordine alla Verità, più assoluta, investe l’essere, il sentire oltre al conoscere. Essa tuttavia non va contrapposta alla Scienza, la quale a differenza dell’Arte attraverso i suoi derivati è in grado di coinvolgere le masse, cambiarne usi e costumi e mentalità.
Ci sono stati libri, autori o artisti particolari, incontri che hanno segnato quei tuoi anni di formazione?
Le prime riproduzioni d’arte, Van Gogh, Cézanne, gli Impressionisti, Gauguin, gli esistenzialisti, Sartre, Gide, Proust, i film, i primi film nella storia del cinema, il jazz.
Soffermiamoci ancora sulla tua geografia esistenziale e formativa. Dopo la Liguria della tua infanzia e della tua duplice formazione c’è Milano. Perché Milano? Cosa significava allora e cosa significa oggi per te Milano?
In Italia c’erano due città artisticamente vive: Milano e Roma. E per me meglio la laboriosa nebbia di Milano che il sole sfasciato di Roma. Altri luoghi: sono vissuto diversi mesi a Parigi, una stanzetta al 6me, non il quartiere latino, ma les Halles, rue S. Denis, il metrò, i boulevards. Un altro posto di grande affezione la val Trebbia.
Stiamo parlando di geografia. Viene spontanea una domanda: la tua pittura ha a che fare con la geografia? Si parla per esempio di pittura padana, di naturalismo astratto informale (Morlotti... ). Sono categorie pertinenti anche nel caso tuo?
No, sono un emigrato, un viandante, i luoghi sono ricordi, nostalgie, depositi, in questo senso la geografia non conta: o conta come memoria.
A proposito di Morlotti: tu sei venuto a Milano in anni in cui dominavano figure come Morlotti, Guttuso. Che rapporti avevi con loro? Li vedevi talvolta? Rappresentavano qualcosa?
Morlotti, all’inizio l'ho frequentato, andavo a Imbersago, lui mi ospitava, ero innamorato dei quadri, così una volta l’offesi, esagerai, lui non me la perdonò, fece bene. Penso che lui e Burri siano i più grandi pittori italiani dal dopoguerra. Con Guttuso non ho mai avuto niente a che fare.
E qui a Milano: hai legato con qualcuno in particolare? Ti incontravi con critici, galleristi, artisti? Quale in definitiva il tuo rapporto con il mondo dell’arte che gravitava su Milano?
Anzitutto incontrai Fumagalli (il Fuma delle Ore): la sua particolarità era, ma suppongo sia tuttora, cercare di deprimerti, ma poi i primi quadri a Milano me li ha esposti lui. La Galleria più interessante, più seria era il Milione di Gino Ghiringhelli. Era la Galleria di Chighine, di Milani. Il primo quadro al Milione me l’ha appeso Gino Ghiringhelli. In quegli stessi giorni morì, il mio quadro era attaccato al muro, e nella stanza lui era lì, al centro, nella sua bara. Una rovina la sua morte. Poi Valsecchi. Ero legato a Marco Valsecchi, un grande critico, un grande uomo, generoso, per i pittori faceva, agiva, scriveva, sono rimasto con un debito insolvibile di gratitudine, e un affetto che non sono mai stato capace di manifestargli. Valsecchi è stato un’epoca, una lunga stagione a Milano, la stagione viva di Milano, di ideali, di quadri.
Milano e la critica milanese. E oltre? E Arcangeli?
Mi è difficile risponderti: è un argomento un po’ delicato. Arcangeli «viveva» tutto, tutto se stesso, e tutto quello che faceva. Forse è eccezionale (ma sarebbe da dirsi ovvio e normale) in lui il trascorrere del proprio esistere nell’aderenza totale al proprio fare. E’ stato un «uomo», non un impiegato. Non era un «professionale». Adesso, sempre di più prevale l’opposto. La carriera, il successo, il mondo (mondano) anziché la misura interiore, l’autenticità, la verità. Ora emergono i pittori a ore, i critici a gettone. Arcangeli investiva la propria mente e la propria passione totalmente, contemporaneamente. Quindi era per ciò stesso propulsore, creatore... e per questo ha sempre pagato, gli han sempre fatto pagare tutto, più di tutto, perché uno così è uno «scandalo». Gli «impiegati» nella vita, della vita, i mediocri, sono feroci con la pietra di paragone del loro fallimento. Ecco chi era Arcangeli, una pietra di paragone per tanti, per troppi.
Per un lungo attimo restiamo nel silenzio, e, dal silenzio, ecco riemergere delicate le note di un’orchestra. La musica, la buona musica – dice lui – che non è necessariamente solo quella classica..., compagna di lavoro nelle lunghe ore, per lo più solitarie e notturne, vissute nello studio.
A differenza di tanti altri artisti chiassosi e turbolenti, che viaggiano, costituiscono gruppi, tu vivi sostanzialmente appartato. Ci sono stati viaggi, hai mai fatto parte di gruppi?
Una sola volta, agli inizi, ho fatto parte di un gruppuscolo, che si sfasciò al povero calore di una Biennale; un calore troppo intenso per la sua forza coesiva e per le sue ragioni di essere.
Accanto all’arte e ai suoi problemi, negli anni, hai partecipato alla vita politica, per lo meno sei stato tentato di farlo?
Mi interessavano i valori della giustizia sociale, della solidarietà, credevo nel rinnovamento, nell’umanità, nei valori umani, in una classe più pulita; più vitale, più vera, di quella borghese in cui ero nato, stanca, imbalsamata, retorica. Poi il consumare ha messo a posto tutti. Ora tutti stanno bene, consumano, i più corrotti hanno il potere, correttamente eletti a rappresentare tutti gli altri: alla luce del sole e fino alla consumazione della terra. A quel tempo stavo con gli operai, avevo grandi amici tra loro, parteggiavo: ora ci misuro quanto ho già trascorso del mio tempo.
Riportiamo la riflessione sullo specifico del tuo lavoro, la pittura. Che cosa è per te?
La pittura è cercare, trovare facendo; i quadri sono tappe, le più alte impronte per colui che fa. Concretano il suo esistere. La pittura forse è un’illusione, ma un’illusione che tiene, che funziona (nella vanità del tutto?), che ci aiuta a sopravvivere in un mondo che tende ad annullarci come soggetti.
Dunque ha ancora significato essere pittori oggi. Hanno ancora spazio un segno e un’immagine personali, in una realtà che ha privilegiato un'immagine semplificata spesso con l’ausilio di mezzi tecnici?
Per me la pittura è realizzazione, è espressione, anche se, in quanto «espressione» presume implicitamente, all’altro capo, un ascolto, una consonanza. Come comunicazione di massa l’arte in quanto tale non è mai esistita. Per secoli ha avuto, sì, anche il compito di rappresentare, illustrare miti e fatti e personaggi ad uso umano corrente, ma l’arte, il suo significare vero, il suo scopo restavano nascosti, non automaticamente acceduti; incorrotti dal quotidiano e dai piccoli usi. Finché, con i nostri tempi, l’arte si è liberata da tali compiti minori, da tali servitù, e mentre le «immagini semplificate» assolvono codeste funzioni, le «immagini vere» viaggiano per conto loro, liberate e libere, preferibile se trascurate e ignorate dai grandi commerci, dalle grandi veicolazioni, salvaguardate da inquinamenti e corruzioni. Oggi è il businnes che utilizza l’arte senza peraltro penetrarla, senza nessuna necessità o interesse a comprenderla. Consumano le montagne per farne cemento, tanto più facilmente coi fiati, coi flash, con i restauri, le traslocazioni, distruggono, consumano fragili tele e poveri marmi. Essere pittori oggi, come ieri, è stare altrove; intendo dire ambiti, livelli, «altri».
Ti senti un apocalittico oppure credi che esista una modernità relativa a questo modo di essere pittore? Secondo te l’arte ha tempi diversi rispetto agli sviluppi politici, sociali, economici? L’arte è cosa completamente autonoma rispetto al resto della vita?
Credo che gli artisti vivano pienamente e intensissimamente dentro il loro tempo, ma che il loro operare artistico non possa essere legato, quindi ridotto, al quotidiano: alla cronaca. Giacometti per dieci anni (artista già affermato, si diede a ricominciare da capo) fece sculturine grandi come fiammiferi, che lui stesso trasportava dentro scatole di fiammiferi, non commerciabili, non esponibili, senza interesse per alcuno. Più fuori del suo tempo, del tempo, di così. Di quello che lui cercava e che poi trovò finalmente... ne parla mirabilmente Jean Genet (in uno scritto che Picasso definì il migliore scritto su un artista che egli avesse mai letto): «...Giacometti non lavora per i suoi contemporanei, né per le generazioni future: egli crea delle statue che finalmente fanno la gioia dei morti...».
Un’altra citazione straordinaria a questo proposito è questa, ricavata da uno scritto di Francesco Arcangeli su Monet: «...l’artista è in rapporto con qualche cosa, non si sa con che cosa però è in rapporto».
Parliamo della tua pittura: che rapporto c’è tra essa e il disegno? A me pare che il tuo disegno abbia una specificità sua propria per cui va considerato indipendentemente dalla pittura e non semplicemente come fase preparatoria.
Mi è impossibile pensare a qualcosa di preparatorio, a qualcosa in funzione di qualcos'altro. Implicherebbe ipotesi, progetti programmi. Per me c’è il «mio» dentro, il «suo» fuori, il confine tra il dentro e il fuori. E poi c’è il foglio, o la tela, e le dimensioni. Il mio dentro, il suo fuori, e il loro confine, posso viverli con il fuoco più sull’uno, sull’altro o sull’altro ancora. Quando mi pongo fisicamente davanti a un fuori (albero, erba, testa) questi agisce sul mio dentro con tutto il suo peso emotivo, compreso quello della sua valenza ottica. E questa è la «meccanica» mia, di cui il disegno, il dipingere, i colori sono strumenti, in un certo senso di pari grado.
Ci sono artisti (Picasso tra i sommi) dalla grande rapidità di gesto e facilità di esecuzione. (Giacometti per contro diffidava della propria abilità tecnica). La tua pittura, ad un primo sguardo, può sembrare di rapida esecuzione.
Forse, si può compiere in modo rapido un quadro (o un disegno). Tuttavia si perviene all’attimo del suo compimento lentamente, talora i tempi sono lunghissimi, non ci si arriva... è frustrante...
Montale diceva che il poeta lavora per tutta la vita attorno ad una stessa poesia, ad uno stesso nucleo di cui cambiano le forme ma non il sostrato. Il fantasma poetico insomma è sempre quello, è sempre a lui che si cerca di dar vita. E’ così anche per te?
Ci si fa l’autoritratto tutto il tempo. Si può dire solamente ciò che più si conosce. Attraverso se stessi si arriva agli altri e, chi davvero è artista oltrepassa questa misura, tocca il Cosmo. Giacometti: «un’opera d’arte è aderente al vero quando la sua esistenza e la sua forma stessa danno corpo alle verità della vita dell’artista».
Come ti appare, a uno sguardo retrospettivo, il tuo cammino artistico dagli inizi ad oggi? Ci sono stati fratture, scarti, momenti d’incertezza o di smarrimento?
Non so guardare alle mie cose come se costituissero un «cammino» artistico. Riconosco, mi riconosco, so i perché. Vivere: le domande, i desideri, le attese, le risposte via via, il senso che cambia, le costanti di una vita e le sue mutazioni. Siamo dei pellegrini e il fare e l’essere vanno assieme, ma mi è impossibile ricostituirli in un percorso logico progressivo.
Ci muoviamo per lo studio: tre locali disposti a L due dei quali si affacciano su Viale Montenero, l’ultimo, quello più interno, è una modesta cucina senza aperture: una stufa con fornello, qualche piatto, il bricco del caffé. All’estremo opposto la camera studio: un divano-letto alla turca, una biblioteca, un tavolo da lavoro. A far da cerniera tra i due, l’atelier, con le mensole a parete, i quadri ordinatamente riposti di taglio, uno sgabello ed un cavalletto, qualche poltroncina. Un appartamento semplice, modesto fin anche, ma ordinato e profondamente vissuto.
Mi par di cogliere qui dentro uno spirito di francescana semplicità. Solo ora accostandomi alla finestra, mi rendo conto di un sottile schermo opaco che corre sul vetro ad altezza di uomo. L'occhio vi si posa, ma non può correre oltre: case, palazzi, strade, insegne luminose... tutto è assai lontano di qui. Uno sguardo che ritorna dentro, implosivo.
Appartieni a una generazione per la quale l’informale è stato decisivo. Ma al fondo dell’informale c’è un senso profondo di angoscia...
Di angoscia esistenziale. L’Informale per me significa verità con se stessi e verità sulla tela, aderenza al proprio Io. Si tratta dei valori essenziali di sé coincidenti con quelli dell’espressione pittorica. Anche in Rembrandt, anche in Tiziano sono contenuti questi valori. Si tratta tuttavia degli elementi primari, poi occorre mettersi in cammino, occorre camminare... crescere...
Tutto questo significa anche doversi definire, dare senso e luce a quello che diversamente è non senso e buio, e quindi genera angoscia come quella già vissuta da fanciulli quando, svegliandoci di notte, in assenza del mondo visibile, si pativa per la momentanea perdita di identità.
Certo: l’unica entità, l’anello mancante, (l’insicurezza totale, la privazione, è la risposta che non c’è mai) sarebbe Dio che avesse a rispondere al buio di noi fatti adulti (il buio dei bambini riempito e risolto dalla madre). Nostalgia per la risoluzione che la madre fu. Nostalgia di Dio? Non si può avere nostalgia per qualcosa che non si è conosciuto. Si rimpiange chi risolse la «prima» paura totale e si ha nostalgia del «primo» buio per la sua felice risoluzione. Si cerca angosciosamente chi avrebbe a risolvere il buio adulto, e bambinamente si bestemmia l’Assenza.
Che spazio occupa il pensiero della morte nella tua vita? Come cerchi di viverlo?
Il pensiero della morte segna tutto il vivere (tranne beati fortunati), ne fa la qualità. In sé e per sé non è comprendibile nella mente, nella testa non ci sta, così penso, quindi non sai neppure cosa farne della morte, è il vuoto assoluto. Ti posso parlare della vita, di fronte a me stesso so di avere vissuto, di avere conosciuto il pieno della vita, la felicità straripante. La morte, il suo pensiero che è l’unica cosa che di essa possiamo conoscere, fa oblique le verticali, la terra si muove e si mette a ballare, fa inesistere l’esistente, azzera l’esistito.
Il segmento e la retta possono convivere? Come geometrico azzardo mentale, ma, nel concreto, in una unica mente non ci possono stare.
A un certo punto (come adesso per me) cosa ti resta da fare? Il modo di uscirne indolore, esiste? Istanti piccolissimi, un istante solo, non restare impazzito più di un attimo.
Quali sono gli uomini che apprezzi di più?
Sono quelli oltre la formicola, che se la vedono di fronte a se stessi, che assumono l’esistere coi suoi quesiti insolubili. In salita, il sempre meno relativo.
Ancora una domanda per concludere: nei tuoi dipinti (come da questa nostra conversazione) si rivela l'uomo interiore di Repetto: le sue incertezze, i suoi smarrimenti, la ricerca di un filo, il condensarsi o lo sbrogliarsi di una matassa o di un’emozione... Testimonianza di silenziosi addensarsi e disperdersi di materia, dramma e precarietà dell’essere e del vanire, speranza
di un impossibile ultimo filo... Si può quindi anche sperare e disperare dipingendo?
A me pare di essere colto da queste tue parole.
Quando ci salutiamo, è un arrivederci il nostro. Scendo le scale, attraverso l’androne. Fuori, sulla piazza, è ormai calata la sera delle metropoli: insegne luminose, lampeggiamenti di neon multicolori, passanti frettolosi, fanali d’auto in fuga. Volgo lo sguardo al quarto piano: anche lassù le luci sono accese, ma lui non lo vedo. Starà riordinando lo studio o, forse, già sta per rimettersi al lavoro: di là, oltre lo schermo.